Quando davo da mangiare alle bambole.
Mi sono sempre sentita a mio agio tra pentole e fornelli.
Alle scuole elementari invidiavo una mia compagna di classe che aveva una cucina giocattolo.
Quando avevo il permesso di andare da lei a giocare, preparavo una pappina con l’acqua e i biscotti e davo da mangiare alle bambole.
A casa, cucinava mio padre ed i dolci erano una rarità. Aspettavo con ansia le occasioni di festa, quando mamma, insieme alla nostra colona, preparava i dolci tipici.
A pensarci, non erano buonissimi ma, per me, costituivano un sogno.
A Pasqua era un trionfo di dolci e non solo: dal mercoledì al sabato santo si accendeva il forno a legna tutti i giorni.
Si iniziava con i taralli con l’uovo e i biscotti lunghi da bagnare nel vino rosso; il giovedì le torte, le pignarelle ed il pane, il venerdì le pizze piene e le pizze con l’erba, il sabato le pizze con la ricotta e le pastiere.
Si terminava con la pizza di pane di spagna, così la chiamava mamma. A me toccava mescolare i tuorli con lo zucchero in una grande zuppiera di ceramica, una fatica!
Per due tuorli, un cucchiaio di zucchero e uno di farina. Niente lievito.
Guardavo affascinata mia madre che, con un braccio stringeva al petto il pentolone di rame e con l’altra mano, munita di un frullino di ferro e di una grande energia, montava le chiare.
Dopo aver infornato, mi era consentito di ripulire la zuppiera con il dito. Mai impasto mi è sembrato più buono!
C’erano anche le mie zie, che arrivavano, accompagnate in auto dai mariti, con le buste piene di ruoti e scodelle, più le loro porzioni di formaggio “scamosciato”, prosciutto crudo, uova, ricotta ed ingredienti vari.
Ognuna lavorava occupando il proprio spazio sul tavolo, attente a non mischiare la roba.
Una catena di montaggio, dove i maschi erano esclusi.
Nella grande cucina che mamma aveva fatto ricavare nel piano interrato, dove oltre al forno c’era anche il camino,si spandevano calore e profumi a piene mani.
Era bello stare lì! Avrei voluto che la settimana di Pasqua durasse per sempre.
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