Il signor Enrico, uomo d’altri tempi. Ma chi era costui ?

Finii di sfornare l’ultima teglia di grissini. Si erano coloriti troppo. Negli ultimi minuti di cottura, li avevo persi di vista ed ero pure sudata.

Sfilai la maglietta e rimasi in canottiera, come mi piaceva quando restavo a casa nella mia cucina ed il calore del forno e dei fornelli rendeva l’ambiente tiepido e vaporoso.

Stavolta non ne assaporai il beneficio. Sentii la porta d’ingresso chiudersi. Appoggiai il palmo delle mani sul bordo del lavandino.

Come sempre, dopo ogni discussione in cui con la forza delle parole aggredivo e distruggevo, avvertii un inconsolabile senso di vuoto. Eppure, ero stata certa che quello era l’amore della mia vita.

Fuori c’era il sole. Mi avvicinai ai vetri. La vista non era bella. Palazzi alti, popolari, azzeccati azzeccati. Alcuni balconi avevano la veranda. Le corde erano piene zeppe di panni colorati di varie misure.

Parlavano di case vocianti e affollate, di mamme che urlavano ordini da una stanza all’altra, di fratelli che litigavano. Mi è sempre piaciuto immaginare la vita dietro alle finestre. Posso idealizzare qualunque realtà, disegnare una famiglia felice seduta al tavolo da pranzo.

Avevo conosciuto Enrico in una giornata di pioggia. Ero andata all’ufficio postale a pagare una bolletta ed all’uscita il mio ombrello non c’era più. Lui era già sulla porta. Mi vide frugare nel portaombrelli e scuotere la testa sconsolata. Si offrì gentilmente di accompagnarmi. Lo guardai negli occhi, aveva la voce ed un aspetto rassicuranti, modi gentili, da galantuomo.

Solo tempo dopo, aprendo la carta d’identità, avrei scoperto che si chiamava anche Maria.

Enrico Maria, avrebbero potuto darmi dei segnali quei due nomi insieme. O forse no e sarei stata ancora più lusingata della sua attenzione.

Cucinare mi piace tanto. Scegliere con cura la materia prima può essere paragonato ai preliminari in amore. La manipolazione dell’alimento, l’anticipata realizzazione mentale della ricetta sono pari all’attesa di un appuntamento erotico.

Enrico mi aveva accompagnata all’auto che avevo parcheggiato lì vicino. Pioveva a dirotto. Poche parole, di circostanza, mi sentivo in imbarazzo. Per ripararmi ero costretta a stargli vicino, quasi a tenermi al suo braccio. Azionai il telecomando. Fece in modo da avvicinarsi per primo allo sportello. Lo aprì, mi fece salire e lo richiuse. Nella concitazione del momento riuscii a distinguere un “A ben vederci”. Dietro al finestrino, agitai la mano in segno di saluto. Che tipo strano, un po’ demodè, pensai. Aspettò, sotto la pioggia, che partissi. Giacca impermeabile beige, pantalone grigio di lana, scarpe nere, leggermente sformate. Non mi sembrava di averlo già visto in giro oppure non l’avevo mai notato. Me ne dimenticai. In quel periodo ero fissata con i cioccolatini. Prima di uscire, li avevo messi ad asciugare su un vassoio appoggiato sulla lavatrice. Ero preoccupata per quelli con la ciliegia sotto spirito. Chissà se lo zucchero fondente avrebbe retto e fatto da barriera al liquido.

Alla bolletta successiva lo trovai già lì. Si alzò per salutarmi e chiedermi come stavo.  Mi venne in mente il suo nome, per fortuna. In attesa ognuno del proprio turno, chiacchierammo un po’. Mi chiese se potesse offrirmi un caffè. Quel giorno c’era il sole. Cercai di rifiutare facendogli presente che avrebbe dovuto aspettarmi. Insistette, “è un piacere attendere”. Lo disse con un tono così convinto e seducente che mi sembrò di vederlo per la prima volta. Mi chiesi perché si interessasse a me. Il sabato mattina uscivo sempre con la tuta.

Andammo in un bar poco distante. Mi guidò ad un tavolo a due posti, molto intimo. Iniziò a parlare di sé. Avvocato, separato, tre figli. Aveva lo studio nel palazzo della posta. Lo ascoltavo e lo studiavo, sorridendo. Vestito bene, giacca e cravatta di sabato, intorno ai sessanta, pensai. Sicuro di sé, disinvolto e loquace, parlava con me e si guardava intorno. Scherzò con il ragazzo che venne a prendere l’ordine, si alzò per salutare ossequiosamente due signore con un cagnolino che presero posto accanto a noi. Era molto a suo agio e padrone della situazione. Un giocatore che punta a più tavoli contemporaneamente.

Non era bello, ma molto distinto. Alto e solido. Ogni tanto, raccontando di sé, mi fissava gli occhi. I suoi erano acquosi, verde chiaro. Spavaldi. Insieme al tono di pacatezza e decisione che emanava la voce, mi avvincevano.

Il suo approccio mi aveva colto di sorpresa. Sono stata sempre io a scegliere gli uomini o, almeno, così ho creduto.

Bevemmo il nostro caffè e guardai l’orologio. Da qualche anno ero impiegata in un supermercato ed il sabato iniziavo a lavorare a mezzogiorno. Dedicavo la mattinata alle commissioni. Mi chiese se avessi fretta. “Un pò. Devo tornare a casa. A mezzogiorno inizia il mio turno di lavoro.” Parlai sorridendo, avevo vergogna a raccontare di me.

Mi occupavo di merci e fornitori ed ero sottopagata. Quando facevo la spesa, cercavo di non passare tra gli scaffali degli alimentari e di andare a prendere direttamente solo quello che mi serviva, altrimenti avrei speso lì lo stipendio. Mi facevo tentare da tutto quello che vedevo esposto, soprattutto se avevo fame. Quando c’era carenza di personale, sistemavo anche barattoli e provviste.

Mi chiese il numero di telefonino. Disse che aveva molte conoscenze e poteva aiutarmi a trovare un lavoro migliore, se avessi voluto. Non mi stupii. Me lo aspettavo e non ci vidi niente di strano.

Tornai a casa. Lavai l’insalata per Emanuela, mia figlia, che più tardi sarebbe tornata da scuola. Mi cambiai velocemente ed uscii.

Il sabato era sempre un turno faticoso per tutti. Mi immersi nelle mie cose e non pensai ad altro. Nel pomeriggio telefonai a Emanuela, per sapere se aveva mangiato, se stava facendo i compiti e che programmi avesse per la serata. Aveva quattordici anni e frequentava il primo anno di liceo.

Quando rientrai ero stanca e mi facevano male i piedi. Non vedevo l’ora di mettere il pigiama e stendermi sul divano.

Mia figlia era uscita con le amiche. Mi affacciai sulla porta della sua camera ed evitai di pensare agli abiti sparsi dappertutto e ai libri aperti per terra. Dovevo ignorare il disordine e il disappunto che sentivo crescere. Era uno spazio suo e dovevo rispettarlo.

Pensai alla stanza che da piccola avevo diviso con mia sorella. Linda ed ordinata. Alle bambole in mostra in cima all’armadio, al copriletto che dovevamo togliere e piegare, prima di andare a dormire. Riporlo sulla spalliera della sedia, altrimenti si sarebbe sgualcito.

Presi della frutta, mi sedetti sul divano ed accesi la tv. Allungai i piedi sul tavolino ed iniziai a sbucciare una mela. Quando stavo da sola, non mi andava di sedermi al tavolo da pranzo nè di prepararmi qualcosa. Se non fosse stato per mia figlia, avrei vissuto di pane e formaggio. Quelli stagionati mi piacciono moltissimo. C’era stato un periodo in cui ero golosa di pane e margarina. Sceglievo il tipo casereccio, possibilmente cotto nel forno a legna, la crosta croccante e scura, i buchi grossi all’interno.

La margarina affondava. Era buono anche il giorno dopo, un poco più asciutto.

Il telefonino mi segnalò un messaggio. “Buonanotte E.” Il nome solo con l’iniziale mi colpì.

Ero abituata alle attenzioni degli uomini e, seppure non avessi capito qual era stata la molla che aveva spinto Enrico ad interessarsi a me, mi aspettavo comunque una forma di corteggiamento.

Il testo denotava una delicatezza d’animo e di modi che mi spiazzò. Non avevo mai conosciuto la gentilezza.

Enrico entrò così nella mia vita, in punta di piedi.

(1 – Continua)