Ogni ricorrenza viene spesso festeggiata con almeno un piatto speciale. Il pollo alla cacciatora segnava, tutti gli anni, la festa del Patrono a casa mia.
Immagino di suscitare, citando la festa del Patrono, ricordi comuni a tanti: la processione, le campane a festa, le luminarie, la banda musicale, le bancarelle, i fuochi d’artificio.
Nel mio paese, Montefalcione (provincia di Avellino, in Campania), la festa di Sant’Antonio da Padova è l’avvenimento più importante dell’anno.
Secondo i documenti parrocchiali nel 1688 il Santo preservò il paese da un violento terremoto che nelle zone limitrofe provocò morte e distruzione. Montefalcione ne uscì indenne.
Il Santo si festeggia due volte all’anno: una festa piccola il 13 giugno e una grande che viene celebrata nella data convenzionalmente scelta dell’ultima domenica di agosto, per fare in modo che anche chi fosse emigrato per motivi di lavoro, potesse ritornare per i festeggiamenti. Per ben due anni, a causa del Covid, non è stato possibile festeggiarla insieme a tutta la comunità.
Siamo felicissimi, invece, di poterla rivivere quest’anno, agosto 2022, con tutti gli amici e i parenti.
Per mio padre, la festa di Sant’Antonio era più importante di Natale e Pasqua.
I giorni di festa veri e propri erano tre:
Proprio in quest’ultimo giorno, a fine serata, c’era la grande gara di fuochi pirotecnici a cui partecipavano migliaia di persone, anche da fuori regione. Iniziava a mezzanotte e durava un paio d’ore.
Perciò, papà organizzava una tre giorni “mangiatoria”: i piatti forti erano previsti per la domenica, ma anche gli altri non erano da meno.
L’organizzazione iniziava molto tempo prima: si parlava sempre dei piatti da cucinare, pure se tutti gli anni erano gli stessi; i polli, che dovevano finire in padella, venivano controllati a vista e ogni tanto pesati con il “vilanzone” per verificarne lo stato di avanzamento, altrimenti papà rinforzava le loro libagioni. Poi, la spesa presso i vari commercianti: anch’essa aveva cadenze e riti precisi.
L’eccitazione dei preparativi e la felicità dell’attesa ci tenevano compagnia per tutto il mese di agosto.
Fusilli freschi fatti in casa con il “ferro” dell’ombrello, conditi con ragù di “fianchetta” di carne ripiena; lasagna con sfoglia tirata al mattarello; polli alla cacciatora; cotolette per noi più piccoli; parmigiana di melanzane in “ruoti” capientissimi e su tutto soppressate e capicolli, usciti dalle mani di papà.
Provolone “Auricchio”, una specie di caciocavallo allungato, comprato al mercato, alla bancarella di Liberato. In cantina ce n’era sempre qualcuno appeso.
Mia mamma preparava la sua pizza di pan di spagna, prevista solo per le grandi occasioni, e la farciva con crema gialla e al cioccolato. La domenica della festa veniva a pranzo da noi la sorella con la famiglia.
Poi c’erano i torroni, le noccioline (arachidi), i biscottini neri e i bianchi.
Il pomeriggio della domenica si andava alla processione dopo aver indossato il vestito della festa.
Papà era l’unico a salire in chiesa perché ogni anno “andava scalzo a Sant’Antonio”.
Lo aspettava sul sagrato, con il vestito scuro delle grandi occasioni e i piedi nudi che spuntavano, lunghi ed ossuti, da sotto il pantalone. Quando la statua del Santo usciva, si metteva in fila, mai impaziente, tra i lunghi cortei di cera, sapendo che la processione sarebbe durata ore ed ore. Non si stancava né mai l’ho sentito lamentarsi. Era legatissimo al Santo, che in più di un’occasione lo aveva aiutato a superare momenti critici.
La statua veniva portata a spalla e ancora oggi, alcune famiglie, sempre le stesse, si tramandano questo privilegio di generazione in generazione. Ogni anno, sul sagrato del Santuario, prima di dare inizio alla processione, si svolge l’asta per aggiudicarsi “la statua del Santo, l’oro e i soldi”.
Nel corso dei secoli i fedeli per ringraziamento hanno donato e donano bracciali, collane, anelli che vengono cuciti sul mantello di velluto del Santo. Chili e chili di oro, alimentati anche dagli ex voto degli emigranti.
Più volte il mantello del Santo è stato rubato. Anni fa entrarono in chiesa con il ragno e portarono via la cassaforte. Il giorno dopo in paese si respirò un’aria di sgomento, un oltraggio simile era inconcepibile e inaccettabile.
Per ritrovare l’oro si rivolsero persino ai sensitivi. Non ci fu niente da fare, ma i fedeli mai si stancheranno di donare monili d’oro per il mantello del Santo. A tutti, nel parlare di Sant’Antonio, si velano gli occhi di lacrime di commozione. “Ti ameremo sempre ed assai” recita l’antica invocazione al Santo che annualmente il sindaco declama consegnando alla processione il giglio d’oro, subito dopo l’asta.
E’ davvero così, un legame ancestrale e atavico che va oltre la fede.
Alla fine della processione, a cui noi assistevamo dal balcone della casa paterna di mamma, salivamo in chiesa per ricevere la benedizione, portare le scarpe a papà ed assistere all’incendio del campanile.
Ce ne tornavamo a casa col cuore contento. Io dicevo di essere stanca ed allora papà mi prendeva in braccio. Mi faceva scendere in piazza, dove iniziavano le bancarelle.
Una, in particolare, catturava la mia attenzione. Sul marciapiede, davanti alla casa di “zi’ Girda”, erano disposte tantissime bambole sedute a gambe aperte. Io mi fermavo a guardarle incantata ed allora lui qualche volta mi faceva un regalo.
Il culmine della festa si raggiungeva nella serata degli spettacolari fuochi d’artificio. Un tripudio, sempre i migliori fuochisti sulla piazza.
Per papà era il momento più atteso: orgoglioso e fiero delle tradizioni, se qualcuno avesse voluto fargli un’offesa, avrebbe dovuto dire che i fuochi d’artificio non gli piacevano. Proprio come Lucariello con il presepe in “Natale in casa Cupiello”.
Da casa nostra si vedevano e si vedono ancora benissimo. Noi portiamo avanti l’orgoglio di papà, perciò tutti gli anni siamo in compagnia di tanti amici, a cui diciamo: arrivederci all’anno prossimo!
Arriviamo, quindi, alla ricetta di oggi, il pollo alla cacciatora, che ha caratterizzato per tanti anni i ricordi della festa.
In primis, mi sento di consigliarvi un dosaggio equilibrato di pomodoro e pelati per ottenere un risultato migliore: la parola d’ordine è scarpetta!
Eh si, la quantità di pomodoro dipende da quanto pane avrete intenzione di inzuppare! Io metto all’incirca 700 g di passata ed 1 kg- 1kg e 1/2 di pomodori pelati (San Marzano o altra tipologia).
E’ squisito!
Per quanto sia appetibile vedere il pollo tutto intero, quella è una versione più adatta alla cottura in forno. Per realizzare il pollo alla cacciatora, invece, è preferibile scegliere quello in pezzi, prediligendo il coscio e il sovracoscio, più ricchi di carne.
Molte ricette suggeriscono di eliminare la pelle perché grassa, ma questo passaggio non è obbligatorio. Tradizionalmente non l’abbiamo mai eliminata, quindi, ancora oggi la lascio; ma sta a voi decidere se avere un prodotto più leggero o uno più ricco di gusto.
Si tratta di una ricetta antica e molto diffusa in Italia, da Nord a Sud. Sembra, però, che questa ricetta affondi le sue radici nel centro Italia, tra Toscana, Umbria ed Emilia Romagna. Si racconta che la denominazione derivi proprio dal mix di aglio e rosmarino che serve a rosolare il pollo e che, bene o male, ritroviamo in tante ricette della tradizione contadina.
Inoltre, sembra che i cacciatori fossero soliti portare con loro questi ingredienti per aromatizzare al momento le loro prede. Un tempo tutti gli ingredienti di questo stufato erano autoprodotti dai contadini: il loro pollo ruspante, il vino di casa, le carote, il rosmarino e il sedano dell’orto, rendevano il pollo alla cacciatora un piatto umile, ma ricco di gusto.
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