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Il fascino di quell’uomo elegante.

Il fascino di quell’uomo elegante.

Il lunedì mattina la casa appariva come un campo di battaglia. Oggetti sparsi ovunque, residui di cibo, lavandino occupato, bucato da stendere. Nonostante in casa fossimo solo in due, sembrava ci fosse un via vai di persone indaffarate. E pure nervose. Riprendere la routine, persino dopo una brevissima pausa, mette di malumore.

Durante il lavoro, Enrico con un messaggio mi comunicò l’appuntamento con il suo amico per la sera successiva. Ci accordammo per vederci al bar dove eravamo stati insieme. Mi sentii elettrizzata. Non riuscivo a concentrarmi sulle cose da fare.

Il mio stato d’animo era sospeso tra l’eccitazione e la paura di situazioni nuove. Mi è sempre accaduto che la felicità dell’attesa superasse di gran lunga la bellezza del fatto concreto. Stavolta avrei tanto voluto essere smentita. Spesso mi sono chiesta se fosse una questione oggettiva o piuttosto un tratto del carattere.

Prima dell’incontro con Enrico, mi cambiai un’infinità di volte. Nel mio armadio si stipavano almeno cinque anni di guardaroba. Non buttavo mai niente, conservavo, poteva sempre servire. Esistevano due taglie, tra cui oscillavo. Alla fine scelsi un pantalone aderente nero, una maglietta bianca con scollo a barca, che modellava le spalle, scarpa col tacco alto. Mi sentivo femminile. Truccai leggermente gli occhi, disegnai i contorni delle labbra e le dipinsi di rosso scuro. Infilai un giubbino di ecopelle nero ed uscii. Decisi di raggiungere a piedi il bar.

Mi stava aspettando all’entrata. Durante il tratto che mi separava da lui, mi sentii osservata attentamente. Lo sapevo, era per questo che mi ero cambiata tante volte. Volevo essere seducente. Cercai di apparire disinvolta. Enrico indossava un abito blu con camicia celestino chiaro e cravatta regimental sulle tonalità del rosa e bordeaux. Stava bene, la giacca era un tantino larga. Mi venne incontro, i suoi occhi brillarono, mi prese la mano, fece il gesto di portarla alle labbra. Mi sentii in imbarazzo. Avvicinai la mia guancia alla sua. Era morbida ed aveva un bel profumo. Un brivido mi percorse.

Gli uomini vestiti elegantemente hanno sempre esercitato un grande fascino su di me. Forse, per l’idea del potere che mi trasmettono.

L’auto era parcheggiata proprio lì davanti. Una Saab, non conoscevo il modello. Classica, interni di pelle, non mi sembrò tanto nuova. Aprì lo sportello e mi fece salire. Aveva lasciato il cappotto ben piegato e sistemato sul sedile posteriore. Il suo cellulare nel frattempo era già squillato due volte. La prima guardò il display e scosse la testa, sorridendomi, alla seconda tolse la suoneria. Io ero più importante, disse. Dopo una decina di minuti, parcheggiammo sotto lo studio di Alberto. Ero agitata. Dopo aver citofonato ci accolse sulla porta, bassino, rotondo, allegro. Metteva simpatia solo a guardarlo. Faceva il medico condotto. Non mi sembrava vero. Avrei avuto il sabato libero ed i miei orari di lavoro mi avrebbero consentito di poter mangiare con Emanuela.

Sono sempre stata un po’ incosciente.  Mi buttavo nelle situazioni senza tanto riflettere. Seguivo l’istinto e mi fidavo delle persone. Il lavoro al supermercato presentava meno incognite rispetto al nuovo, ma non m’importava. L’orario era troppo allettante per pensarci due volte, lo stipendio era anche meglio. Certo non sarebbe bastato comunque per me e Manuela ma fino a quel momento avevo arrotondato con il gruzzolo lasciatomi dai miei genitori. La vendita della loro casa mi aveva consentito di acquistare il piccolo appartamento dove abitavo con Emanuela.

Una volta seduti in auto Enrico si voltò verso di me: “Senti”… fermò nella sua mano due dita della mia, “vieni a cena con me?” Mi sentii rimescolare sotto il suo sguardo. Diretto, dolce, sicuro.

Mi portò in un posto bellissimo, un ristorante elegante e raffinato, cucina a vista, tovaglie bianche lunghe fino a terra, atmosfera intima. Il maître lo salutò calorosamente e ci accompagnò al tavolo.  Scostò la sedia e mi fece sedere. Due forchette a sinistra, una più piccola, coltello e due cucchiai a destra, tre bicchieri di diverse dimensioni, un piattino al lato. Mi sentii impacciata ed ansiosa. Lasciai che fosse Enrico ad ordinare per me.

L’ambiente mi metteva soggezione, prima di iniziare a mangiare aspettavo che lui scegliesse per primo la posata.  Parlò tanto, raccontando di sé e di episodi divertenti. Una vita movimentata. Alla fine della cena, alzando il flûte disse “A noi”. Arrivati sotto casa, ci trattenemmo qualche minuto in auto. Avrei voluto che osasse un bacio o una carezza audace, o entrambi. Ero curiosa di sentire l’effetto che avrebbero avuto su di me. Invece, mi accarezzò la guancia e mi chiese: “quando ci rivediamo?”

Risposi che ci saremmo sentiti al telefono il giorno dopo e gli avrei fatto sapere i tempi per il nuovo lavoro. Scese per aprirmi lo sportello. Una volta fuori, in piedi di fronte a lui, mi guardò intensamente negli occhi. Si avvicinò e delicatamente mi spinse indietro, contro l’auto. Mi prese il viso tra le mani e mi baciò. Sentii il suo corpo aderire al mio. Aveva il respiro leggermente affannoso. Con le labbra aperte passò a baciarmi le guance. Le mani scivolarono nei capelli. Io assecondavo i suoi movimenti lasciandolo libero di muovermi testa e collo. Un rumore di passi ci riportò alla realtà. Si scostò e con voce roca mi disse “A presto”. Sentii il suo sguardo accompagnarmi mentre aprivo il portone.

Enrico piaceva anche al mio corpo.

(3 Continua )

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Antonietta Polcaro

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Antonietta Polcaro

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