Ero in pensiero per Emanuela. Aveva preso l’abitudine di andare a ballare il sabato con le amiche. Le accompagnavamo e le andavamo a riprendere a turno. Se non toccava a me, non riuscivo comunque a prendere sonno. Non era soltanto la paura che le potesse succedere qualcosa.

Era piuttosto il sentimento di proteggerla, di saperla felice, senza i vuoti che sicuramente io e il padre le avevamo provocato e con chissà cosa avrebbe potuto riempire. Avrei voluto tornare indietro e fermare il tempo.

La domenica iniziava con ritmi più lenti. Il supermercato per fortuna era chiuso. Il caffè sul divano, il primo sempre doppio. Durava di più. Era carico e confortante. Mi misi a preparare il sugo ed una torta margherita. Volevo coccolarla.

Durante la settimana stava sempre a dieta. Come me. Lei era più brava, costantemente impegnata a masticare chewingum.

Mi chiedevo se tutta l’aria ingerita potesse farle male allo stomaco. Ne consumava tantissime. Io riuscivo a tener duro per qualche giorno, poi improvvisamente ero capace di mangiare un intero pacco di biscotti. In piedi, vicino al mobile, obbedivo ad un impulso. Una fame antica, il mio stomaco sembrava un pozzo senza fondo!

Il pensiero di Enrico a tratti si insinuava nella mia mente. Mi aveva incuriosita. Immaginavo la sua casa, lo vedevo muoversi da una stanza all’altra. Vestito elegantemente. Chissà come trascorreva le sue giornate. Mi aveva raccontato che gli piaceva molto la musica, il jazz in particolare.

Emanuela si svegliò che era quasi ora di pranzo. Aveva la capacità di dormire ad oltranza ed anche a comando. Di lei dicevo sempre “dove la metti, là si addormenta”. Non importava quanto potesse stare scomoda. La invidiavo. Io e il sonno non abbiamo mai avuto un buon rapporto.

Si avvicinò e mi sfiorò la guancia. Appena alzata era sempre scontrosa, come se, per il solo svegliarsi, il mondo le avesse già fatto un torto.

Avrei voluto dirle di sorridere, ma tacevo per non irritarla. Mi ero ripromessa di essere una mamma comprensiva.

Dopo il caffè, si rasserenò e mi raccontò della sera prima. C’era un ragazzo che le piaceva. Frequentava la sua stessa scuola, un paio d’anni più grande. Mangiammo in un’atmosfera ciarliera. Verso le cinque sarebbe andata al cinema.

Aspettai che uscisse, poi indossai leggins, maglietta, Kway e scarpe da ginnastica ed andai a correre. La corsa mi faceva sentire libera, forte. Scaricava le mie ansie. Inoltre, mi permetteva di mantenere glutei sodi e quadricipiti affusolati. Avevo iniziato a correre durante il primo anno delle scuole superiori.

Facevo i 1500 metri. Un giorno, durante l’ora di educazione fisica, l’insegnante mi guardò e disse “tu potresti partecipare alla gara di resistenza”. Un destino. Per vari motivi non era possibile allenarmi. Ero forte solo dei miei giovani muscoli. Il fiato alla lunga veniva meno.

Prima di ogni gara, ci ripetevano che non era importante vincere, ma arrivare al traguardo, “non importa quanto stanchi siate, non smettete di correre, non vi fermate!” Non ho mai vinto, ma anche quando mi venivano le fitte nel fianco, anche quando ormai tutti mi avevano distanziata, anche quando l’unico desiderio era stendermi sulla pista, ho rispettato il consiglio.

Tornata a casa, la doccia mi rigenerò. Sul cellulare trovai un messaggio di Enrico. “Posso chiamarti? Ho una notizia per te”.

Ebbi un sussulto. Una sensazione di leggerezza mista a felicità mi invase.

Mi stava pensando.

“Ciao Angela. Scusa l’ingerenza. Volevo dirti che oggi ho parlato con un mio amico che ha uno studio medico ed avrebbe bisogno di una segretaria perché l’attuale si sposa e si trasferisce altrove. Lo stipendio sarebbe buono e gli orari di lavoro mi sembrano più che accettabili. Che ne pensi? Lo vuoi conoscere?”

Sentivo il cuore battere forte. Non mi aspettavo un interessamento così immediato e facevo fatica a controllare i pensieri. “Certo… Dobbiamo solo accordarci … sull’orario. Domani e dopodomani finisco il turno alle quattro del pomeriggio…” La mia voce nel microfono uscì spezzata.

Aspettai l’arrivo di Emanuela con un sentimento di speranza ed allegria. Sentii l’esigenza di cucinare.

Preparai le patatine fritte. Le tagliai sottili sottili e le misi nell’ acqua ghiacciata. Le asciugai e le tuffai nell’olio bollente. La casa si sarebbe impregnata dell’odore ma non m’importava. Avrei aperto il balcone e la signora del piano di sopra mi avrebbe chiamata per dirmi scherzosamente che avrebbe dovuto proprio cambiare casa perché abitare nello stesso palazzo era una tortura! Ogni tanto le regalavo qualcosa, del pane oppure dei grissini. L’odore più buono che conosca.

Quando la incontravo con il cane, questi non smetteva di fiutarmi.

—–

Leggi il racconto dall’inizio