Psicosi da panettone.

Il mio amore per il Panettone vi è noto grazie ad un precedente post sul lievito madre.

Oggi, vi racconterò cosa significa veramente impastare un grande lievitato.

Diciamo che i primi esperimenti sono stati veramente una Caporetto.

La prima ricetta in senso assoluto che ho eseguito è stata questa: http://profumodilievito.blogspot.com/2011/12/panettone-tradizionale-con-lievito.html .

Non avendo esperienza, i miei riferimenti erano gli impasti delle torte, per cui quando lessi versare l’acqua, svuotai il bicchiere in un’unica soluzione. L’impasto si trasformò in crema sotto i miei occhi sbigottiti. Non ci fu nulla da fare. Nonostante, senza capire il perché, portai la planetaria alla massima velocità, non riuscii a recuperare. Non avevo ancora chiaro il concetto di incordatura.

In ogni caso, non rinunciai mai a cuocere un impasto venuto male, perché ero comunque curiosa e volevo osservarlo.

I primi anni i miei amici hanno assaggiato un “dolce” che nella forma assomigliava a un panettone ma nella sostanza era una brioche umidiccia ed abbastanza insapore.

Qualcosa di decente è uscito solo al terzo anno. Mi ero impratichita abbastanza, perciò decisi di partecipare ad un corso del grande Maestro Morandin. Era il più bravo, la sua pasticceria in Valle d’Aosta è famosissima e conta diverse generazioni.

Non mi fermò il fatto che il corso fosse rivolto a pasticcieri professionisti e si tenesse a Rimini, tre giorni.  Avevo da poco comprato un’impastatrice a braccia tuffanti e scalpitavo dalla voglia di usarla in modo adeguato. Essendo un tipo molto pratico, mica avrei fatto tutta quella fatica per ottenere un panettone solo? Con la tuffante avrei potuto impastarne tre o quattro contemporaneamente!

Eravamo in dieci e furono tre giorni intensi e bellissimi, alla fine dei quali, se fosse stato possibile trovare a casa una collocazione, avrei volentieri comprato una sfogliatrice. Per il lievito madre era una manna dal cielo e poi vuoi mettere la possibilità di preparare croissant, pandoro sfogliato, danesi? La facevano pure su misura, a me un metro sarebbe bastato!

Mio marito mi prendeva in giro e mi diceva che potevo metterla in salotto.

Già sul divano non ci potevamo sedere, perché, prima di scoprire che il forno con lucetta accesa potesse funzionare da camera di lievitazione, vi disponevo conche e pirottini per far sì che i miei impasti stessero al calduccio sotto le coperte di pile!

La verità è che nel corso degli anni ho trasformato la casa a misura della mia passione. Settimana scorsa, per esempio, sono arrivati sessanta kg di farina per panettone, in sacchi da 5, e li ho sistemati nella cappottiera all’ingresso. Sia mai, che prendano un po’ di umidità!

Alla fine del corso rischiai di perdere il treno, perché dovunque vado devo portare a casa qualcosa. Comprai i famosi canditi del maestro, cinque kg di arancia e cinque kg di cedro. Mi ero ricreduta, erano così buoni da sembrare caramelle. In scatole di latta cilindriche, pesantissime, il nastro adesivo adattato a formare un manico mi tagliava i palmi, correvo, una in una mano e l’altra appoggiata alla bell’è meglio sulla valigia, alla stazione di Bologna, su e giù, corridoi e scale, per trovare il binario giusto, una sudata!, era novembre, mi ero fatta un regalo per il mio compleanno! Però ero contentissima, in valigia avevo il lievito ultrasessantenne del maestro!

Iniziò così un percorso ad ostacoli, in cui qualche volta perdevo e qualche volta “vinciucchiavo”. Tenevo il lievito in acqua, secondo il suo metodo, ma già dopo i primi due giorni non lo capivo più. La mattina, armata di un termometro per alimenti, misuravo la temperatura dell’acqua, aggiungevo un pizzico di zucchero, toglievo al lievito la parte esterna e gli facevo il bagnetto. Ma lui veniva subito a galla, segno che era debole. Che gli era successo, che potevo fare? Nonostante fossi scoraggiata, andavo avanti, potevo mai rinunciare al mio sogno?

Il giorno della preparazione del panettone occorre rinfrescare il lievito tre volte prima di procedere all’impasto. Io cercavo di incastrare tutto, però l’imprevisto era ed è dietro l’angolo, tipo che cala la tensione dell’energia elettrica, il forno si smemorizza e la lucetta… zac, si spegne. Il lievito non sarà più ad una temperatura di 30 gradi! Ed allora che faccio? Devo decidere velocemente, allungo i tempi di lievitazione oppure impasto lo stesso all’orario prestabilito?

Ansia a mille, la sera del primo impasto mi sento ancora come un corridore al nastro di partenza. La mattina successiva Roky Balboa prima di un incontro. Chi vincerà?

Devo dire che mi sono sempre arrangiata, se pensavo che il lievito fosse debole aggiungevo un grammo di lievito di birra, che funziona da starter. Lo so che non si fa, che è più corretto ricorrere a lui nel secondo impasto piuttosto che nel primo, ma potevo rischiare di passare la giornata successiva a fare le poste all’impasto nel forno, con la possibilità che si inacidisse e non fosse possibile procedere al secondo?

Si, perché la vera bestia nera è lui, il secondo impasto, che bisogna effettuare quando il primo è triplicato. Ora, i professionisti hanno tempi scadenzati, sanno perfettamente che il primo in dieci max 12 ore è pronto, e su quelli adeguano i tempi di un laboratorio. Magari utilizzano il piaccametro per misurare l’acidità del lievito.

Ma io, semplice casalinga senza il piaccametro, passerò la notte ad osservare il mio impasto nel forno con lucetta accesa, spiando i suoi progressi, pentendomi mille volte di aver lasciato lo sportellino in fessura con la cucchiaia, perché lui non avesse troppo caldo, allora mi alzerò, scruterò preoccupata l’impasto che non si è mosso, chiuderò lo sportello, si è meglio, tornerò a letto, le due, punterò la sveglia alle tre, così per scrupolo, tanto non dormirò, mi alzerò di nuovo e poi mi sdraierò sul divano, così sarò più vicina a lui, le tre, mi inginocchierò a terra davanti al forno vecchio, che ho conservato perché i forni nuovi non hanno più la possibilità di tenere la lucetta accesa senza far partire la cottura, disgraziati, spierò il piccolo contenitore graduato (in gergo spia), finalmente, vedrò un accenno di bombatura, ce l’ho fatta!, andrò finalmente a dormire un paio d’ore!

La mattina, dopo avergli misurato la temperatura, lo rimetterò in macchina per procedere al secondo impasto, riprenderò l’incordatura, io, in piedi davanti all’impastatrice, più tesa di una corda di violino, lo stomaco contratto, guai se mio marito mi rivolgerà la parola, tremerò ad ogni nuovo inserimento di ingrediente, capovolgerò più volte, nella speranza che il velo migliori, metterò la velocità al minimo ed inserirò canditi ed uvetta. Con mani amorevoli appoggerò l’impasto sul banco, ora dovrà rilassarsi e fare la pelle. Con occhi innamorato lo rimirerò. Più tardi lo pirlerò e lo metterò nei pirottini!

Per caso vorrete dirmi che i canditi non vi piacciono? Li dovrete mangiare per forza, perché mica posso permettermi un’alveolatura minore per farvelo con i pezzetti di cioccolata?

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Sono Antonietta Polcaro: cuoca, autrice ma soprattutto appassionata di cucina! Da anni condivido la mia storia e le mie ricette con tutti voi.