A Montefalcione la festa di Sant’Antonio da Padova è stata ed è l’avvenimento più importante dell’anno.

Vi è un Sant’Antonio “piccolo” il 13 giugno, e uno “grande” celebrato nella data convenzionalmente scelta dell’ultima domenica di agosto.

I documenti parrocchiali attestano che nel 1688 il Santo preservò il paese da un violento terremoto che nelle zone limitrofe provocò morte e distruzione.

Mio padre nella sua vita ha avuto due certezze: la festa e i fuochi in onore del Santo.

In paese e a casa tutto veniva organizzato in funzione della festa: un’equazione, dove il risultato della X era la data dell’ultima domenica di agosto. Non sia mai che qualcuno pensasse di andare in vacanza e restare fuori per gli ultimi quindici giorni del mese!

Facevano eccezione alla regola solo i pomodori, che maturavano incuranti della festa. Perciò poteva capitarci (spesso) di essere costretti a fare le bottiglie proprio durante la settimana di Sant’Antonio. Tra papà e mamma questo era un argomento di grande attrito: lei era dispettosa ed era anche quella che al menù ci teneva di meno.

Così diceva: “Pe’.. (diminutivo di Peppo), va bene, iah, i pomodori so’ pochi, li facciamo sabato mattina”, nel tentativo di fargli digerire la pillola senza fare storie”.

Ma papà la guardava sbigottito e reagiva:

“Ma come, ‘o sapeto ‘e Sant’Antonio?”.

Finivano per litigare, ma ovviamente i pomodori “si facevano” quando aveva detto mamma.

L’organizzazione per i tre giorni consecutivi di festa iniziava molto tempo prima: si parlava dei piatti da cucinare, pure se tutti gli anni erano gli stessi; i polli che dovevano finire in padella venivano controllati a vista e ogni tanto pesati con il “vilanzone” per verificarne lo stato di avanzamento, altrimenti papà rinforzava le loro libagioni. Si discuteva del cantante per la serata del sabato, del comitato festa, sempre oggetto di contestazione, della serie “come fai fai sbagli”, del quartetto dei fuochisti, sempre i migliori sulla piazza.

Ci si crogiolava nel piacere evocato dalle parole e nella felicità dell’attesa.

Fusilli freschi fatti in casa con il “ferro” dell’ombrello, conditi con ragù di “fianchetta” di carne ripiena; lasagna con sfoglia tirata a mano da papà e da Maria, la colona; polli alla cacciatora; cotolette per noi più piccoli; parmigiana di melanzane in “ruoti” capientissimi e su tutto sopressate e capicolli, curati personalmente da papà. Provolone “Auricchio”, una specie di caciocavallo allungato, comprato al mercato alla bancarella di Liberato. In cantina ce n’era sempre qualcuno appeso.

Mia mamma eccezionalmente preparava la sua pizza di pan di spagna farcita con crema gialla e al cioccolato, perché la domenica della festa veniva a pranzo da noi la sorella con la famiglia, tra cui il nipote preferito, Gianluca, ultimo nato. Lui era solito mangiarne più di una fetta e, grazie al privilegio di essere maschio, gli era permesso di darne pure una fetta al cane, con cui faceva coppia fissa dal suo arrivo a casa.

“Chi figli e chi figliastri”.

Il pomeriggio si andava alla processione dopo aver indossato il vestito della festa. Le “sorelle” strette sottobraccio e con la borsetta a mano, occhi vigili in cerca di facce note in modo che zia Vittoria, ormai forestiera perché viveva ad Avellino, potesse essere aggiornata sugli ultimi accadimenti. Noi dovevamo precederle, camminando davanti.

Papà era l’unico a salire in chiesa perché ogni anno “andava scalzo a Sant’Antonio”.

Si metteva in fila, mai impaziente, tra i lunghi cortei di cera, sapendo che la processione sarebbe durata tante ore. Ma non si stancava né l’ho sentito lamentarsi. Era legatissimo al Santo, che in più di un’occasione lo aveva aiutato a superare momenti critici.

I piedi erano come le mani, lunghi ed ossuti. Spuntavano da sotto il vestito scuro delle grandi occasioni.

La statua del Santo veniva portata a spalla e ancora oggi, alcune famiglie, sempre le stesse, si tramandano questo privilegio di generazione in generazione. Ogni anno, sul sagrato del Santuario, prima di dare inizio alla processione, si svolge l’asta per aggiudicarsi “la statua del Santo, l’oro e i soldi”.

(Nella foto mio zio Achille del Canada regge l’asta dei soldi).

Una leggenda l’oro di Sant’Antonio. Nel corso dei secoli i fedeli per ringraziamento hanno donato e donano bracciali, collane, anelli che vengono cuciti sul mantello di velluto del Santo. Chili e chili di oro, alimentati anche dagli ex voto degli emigranti.

Per loro, come per i miei zii canadesi, la festa di Sant’Antonio era il sogno. Lavoravano duramente tutto l’anno affinché l’ultima settimana di agosto si potesse tornare al paese natio a ringraziare il Santo. C’era anche chi si occupava della raccolta di danaro da inviare come contributo alla festa. Il parroco prima di dare inizio alla processione rendeva i partecipanti alla colletta orgogliosi e fieri, leggendo a voce alta i loro nomi con la relativa offerta.

In ogni parte del mondo dove si sono stabiliti i nostri emigranti hanno istituito la festa di Sant’Antonio nella comunità.

Più volte il mantello del Santo è stato rubato. Anni fa entrarono in chiesa con il ragno e portarono via la cassaforte. Il giorno dopo in paese si respirò un’aria di sgomento, un oltraggio simile era inconcepibile ed inaccettabile. Per ritrovare l’oro si rivolsero persino ai sensitivi. Non ci fu niente da fare, ma i fedeli mai si stancheranno di donare monili d’oro per il mantello del Santo. A tutti nel parlare di Sant’Antonio si velano gli occhi di lacrime di commozione. “Ti ameremo sempre ed assai” recita l’antica invocazione al Santo che annualmente il sindaco declama consegnando alla processione il giglio d’oro, subito dopo l’asta.

E’ davvero così, un legame ancestrale ed atavico che va oltre la fede.

Alla fine della processione, a cui noi assistevamo dal balcone della casa paterna di mamma, salivamo in chiesa per ricevere la benedizione, portare le scarpe a papà ed assistere all’incendio del campanile.

Ce ne tornavamo a casa col cuore contento. Io dicevo di essere stanca ed allora papà mi prendeva in braccio. Mi faceva scendere in piazza, dove iniziavano le bancarelle.

Una, in particolare, catturava la mia attenzione. Sul marciapiede, davanti  alla casa di “zi’ Girda”, erano disposte tantissime bambole sedute a gambe aperte. Io mi fermavo a guardarle incantata ed allora lui qualche volta mi faceva un regalo.

Il fatto che papà mi prendesse in braccio dopo aver camminato per tutte quelle ore scalzo ha rappresentato per me sempre un grande atto d’amore. Ancora oggi il ricordo mi commuove.

La festa terminava con la gara di fuochi pirotecnici che da sempre ha richiamato migliaia di persone, anche da fuori regione. Iniziava a mezzanotte e durava un paio d’ore. Oggi, per questioni di orario, i fuochi sono stati posticipati ad un giorno successivo.

Noi abbiamo sempre un posto in prima fila: il terreno dove sono posizionati i mortai è proprio di fronte alla nostra casa. Una volta papà ha capitozzato un albero di ciliegie perché i rami gli impedivano parzialmente la vista!

Bomba, controbomba, intreccio, bombe di apertura, di tiro, colpi scuri, finale.

Se qualcuno avesse voluto fargli del male, avrebbe dovuto dire che i fuochi d’artificio non gli piacevano: un’offesa personale pari a quella ricevuta da Lucariello in “Natale in casa Cupiello”, quando alla domanda “te piace o presepio?” il figlio rispondeva: “No, nun me piace!”

Il suo più grande orgoglio era poter invitare amici e parenti a vedere i fuochi!