Un racconto, la cena della Vigilia di Natale, incentrato nel ricordo di mio padre, per dare un senso al tempo perduto, agli abbracci non dati.

Come tutte le figlie femmine, ho amato moltissimo mio padre.

Da piccola tutte le cose belle, legate essenzialmente al cibo, ad un pranzo speciale o ad un gelato occasionale, venivano da lui.

Cucinava, faceva la spesa, organizzava i pasti “d’accordo” con mamma. All’inizio è stata una necessità, poi non si “è fidato” di lasciare campo libero a lei (molto felice di questa scelta), successivamente l’impegno si è trasformato in una passione.

Prendeva appunti su dei fogli volanti oppure su un quadernino. Era disordinato e la sua grafia grossa e disallineata rivelava il profondo senso di appartenenza al mondo contadino. Era diventato insegnante ma la sua essenza restava la “terra”.

Quando era festa, ritornava bambino. Iniziava a pensare a cosa cucinare tanto tempo prima. Ne parlava, cercando consensi. Le sue feste preferite erano la Vigilia di Natale e la domenica di Sant’Antonio. In questi due giorni, lui doveva dare il meglio di sé, comprare i cibi più buoni, raccontarci, senza darlo a vedere, di quanto ci volesse bene e vivesse per noi l’uomo rude, pratico e sbrigativo che era.

Lui non aveva mai avuto una cena di Natale e, come tanti, aveva sofferto la fame. Era stato pure un po’ mascalzoncello: nonna Mariuccia, tutte le mattine, gli consegnava un uovo da bere nel tragitto che lui faceva a piedi da Montefalcione ad Avellino per frequentare le scuole superiori. Arrivava al mercato rionale e lo vendeva a cinque lire per comprarsi le sigarette.

Io ascoltavo i suoi racconti e avrei voluto ripagarlo di tutto ciò che non aveva avuto. Avrei voluto abbracciarlo, stringerlo, dirgli che mi dispiaceva di non essere il maschio che lui e mamma desideravano. Mi limitavo a guardarlo con gli occhi lucidi e la mia fame d’affetto, pensando che sarei stata sempre coraggiosa e forte, come un uomo. Desideravo renderlo felice.

La sera durante la cena della vigilia di Natale, quando prendeva la letterina da sotto il piatto, ero emozionata e trepidante. Avevo impiegato tanto tempo a scriverla, con la mia bella grafia rotonda da prima della classe, attenta a non disperdere la polvere d’oro sulla copertina! Gli promettevo che l’anno successivo sarei stata più buona ed obbediente.

Sapevo che avrebbe fatto finta di stupirsi, però ogni anno speravo sempre in un bacio, una parola affettuosa, uno sguardo dolce. Ma non eravamo seduti neanche vicino, e lui già pensava ad altro.

Non aveva tanta dimestichezza con il pesce, da noi non c’era una pescheria. Veniva Sabino da Atripalda, il giorno di mercato e a volte pure il venerdì.

Imparò a cucinare spaghetti e vongole, con la salsa di pomodoro, perché lui non concepiva la pasta in bianco se non quando qualcuno era malato.

Per secondo, la cena della vigilia di Natale, sempre frittura di pesce. Andava nella sua piccola cucina, all’esterno, e la preparava al momento, subito dopo aver finito il primo, perché dovevamo mangiarla calda!

Lui era stato operato allo stomaco, perciò si saziava subito, soprattutto la sera.

Successivamente, quando mia sorella si sposò, appoggiato da mio cognato, divise in due la cena: a pranzo “acci e baccalà” (che più tardi passarono al pranzo dell’antivigilia, perché difficili da digerire), quindi diventò cavolabroccoli all’insalata, baccalà fritto o in bianco, zeppole con alici o con baccalà, anguille arrostite (le comprava soprattutto per mamma); la cena rimase quella tradizionale.

Io continuavo a seguirlo dappertutto: mi piaceva andare a comprare il pesce per vedere le vasche delle anguille e dei capitoni che allagavano le strade, i venditori con gli stivaloni ed il retino. Ci voleva tempo, perché lui mica si accontentava! L’anguilla doveva essere della dimensione giusta, non piccola ma lunga e abbastanza “chiatta”, il capitone era bandito perché a mamma non piaceva: troppo grasso. Per pulirle papà utilizzava pezzi di lenzuola di cotone bianco, in modo che l’anguilla non sgusciasse. Era bravo. Mi facevano impressione che dopo morte continuassero a muoversi!

Mamma, da parte sua, preparava le zeppole bagnate nel vermouth. Ne andava fiera, una ricetta di mia nonna, anche difficile, e tu non potevi dire che il liquore non ti piaceva, nemmeno io che ero piccola. Dovevi per forza dire che erano buonissime. Più ne mangiavi e più era contenta. Per fortuna che arrivò mio cognato!

Mostaccioli, roccocò e pasta reale andavamo a comprarli io e papà ad Avellino, da Cammino, una settimana prima di Natale. Quando arrivavo in quella pasticceria mi sembrava di entrare in un mondo incantato. C’era un intero banco rettangolare con vassoi pieni di ogni ben di dio: perfettamente allineati, mi fermavo lì davanti a riempirmi gli occhi di bellezza, quei fruttini così ben disegnati da sembrare veri! Papà aveva ordini precisi ai quali doveva attenersi. Però, poteva sempre dire la sua: chiedeva al cameriere di andare a riempiere il suo vassoio direttamente nel laboratorio, per avere la certezza di un prodotto freschissimo. Naturalmente, lui si fermava sulla porta e lo seguiva con lo sguardo! In fondo, chiedeva con gentilezza e tutti lo accontentavano.

Ce ne andavamo contenti, con il nostro vassoio infiocchettato di nastro dorato tra le mani. Appena a casa, mamma lo riponeva nello “stipo”. Ci sarebbe voluta circa una settimana per aprirlo.

Difficile immaginare una frase conclusiva. Purtroppo, i miei non ci sono più e non basterebbero parole per descrivere il vuoto che hanno lasciato, ma non c’è un Natale o una festa senza che io e mia sorella, guardandoli là dove riposano, parliamo con loro alla “ricerca del tempo perduto”.