Io e Enrico, tra attimi e respiri, sguardi e sorrisi che si incastrano…

Enrico aveva una grande personalità. Ne ero irresistibilmente attratta.

Avevo seguito il suo discorso sulla famiglia. Non conoscendo la moglie e i figli avevo accettato le sue motivazioni. Mi era sembrato sincero. D’altronde una scelta nata per volontà materna: ecco, non capivo perché avesse acconsentito. Proprio io, che non mi ero sposata perché nessun uomo mi aveva mai convinta del tutto.

Era un uomo brillante, un vincente. Un carattere poliedrico. Da ogni parte ne osservavo le sfaccettature, vedevo sempre la luce. Un faro in mezzo al mare.

La domenica mattina di Pasqua era arrivato a casa con due enormi uova di cioccolato. Un mio desiderio di bambina. Pareva mi leggesse nel pensiero.

Aprì Emanuela. Non lo aspettavo, perciò cercai di nascondere un po’ di oggetti sparsi dappertutto. Anche lei fu piacevolmente sorpresa. La vidi sorridere e prenderne uno.

Ero malinconica perché quel giorno Enrico avrebbe pranzato a casa della madre con i fratelli e tutta la sua famiglia, compresa la moglie. I figli ci tenevano a non lasciarla da sola.

Io ed Emanuela non avevamo altri che noi. Mia sorella abitava lontana, aveva seguito il marito che per lavoro era costretto a spostarsi spesso.

Avevo preparato i ravioli, una sfoglia sottile sottile ripiena di ricotta mantecata. E un sugo di pomodorini freschi. Niente agnello, perché lei si rifiutava di mangiarlo. Diceva che le facevano troppo tenerezza, come i conigli. Solo una bella insalata mista con crostini di pane al forno, noci e cubetti di mela verde. Per finire tanta cioccolata, di tutti i tipi: bianca, al latte, nocciolata.

Prendemmo un caffè insieme. Mi parlò dei preparativi che da giorni tenevano occupata la madre. Immaginavo che il menù fosse assai più ricco del nostro. Non fu per questo che li invidiai.

Era troppo presto per sperare che Enrico trascorresse con noi un giorno di festa. Però lui aveva una famiglia decisamente ingombrante.

Assistevo qualche volta alle telefonate con i figli, sempre piuttosto sbrigative. Con la madre mai. Enrico mi aveva riferito che avevano una sorta di messaggio in codice. Quando la mattina presto la sua auto non era parcheggiata davanti casa, le telefonava giusto per rassicurarla. Altrimenti passava per un saluto veloce. A volte pranzavano o cenavano insieme.

Sua madre mi spaventava. Il legame tra i due era forte e pensavo avesse tanto ascendente su Enrico. Lei era stata il cardine della famiglia. Terza di tre figlie femmine, era cresciuta nello studio legale del padre, che sperava in un maschio, mai arrivato. A quei tempi non c’erano tante donne che si laureavano, ma soprattutto affidare un’attività tipicamente maschile ad una figlia femmina era impensabile. Perciò favorirono la conoscenza di Elvira con un giovane brillante e capace, con un residuo di nobiltà ed un sicuro avvenire. L’attività fu salva ed i genitori ebbero anche un matrimonio felice, allietato dalla nascita di due maschi ed una femmina. Lei, sebbene non avesse conseguito la laurea, continuò ad occuparsi dello studio. Enrico scherzando diceva che lo aveva fatto per tenere sotto controllo il padre. Prima di prendere qualcuno a lavorare, la madre doveva dare l’assenso.

Lui era il figlio su cui lei aveva puntato di più, destinato ad ereditare l’attività di famiglia. Lo aveva fatto liberamente, gli era sembrato naturale. Il fratello aveva scelto la carriera militare e la sorella aveva studiato matematica.

Mi piaceva ascoltarlo mentre raccontava. Episodi dell’infanzia trascorsa in parte con i nonni, il legame forte tra i suoi genitori, le lettere che si erano scambiati durante il fidanzamento. Dalle sue parole traspariva un senso di solidità familiare che mi affascinava.

In una delle nostre uscite gli chiesi se durante i cinque anni della separazione avesse avuto qualche rapporto stabile. Mi disse di no, occasionali come sempre, al massimo qualche mese.

“E’ stato come essere ritornato scapolo, ho assaporato di nuovo la libertà di non avere obblighi, di vivere facendo solo ciò che mi piace di più.”

Mi era sembrato di aver colto che la madre sperava che lui e Adelia tornassero insieme.

“Solo Erica, una praticante allo studio, mi ha messo in difficoltà. Era giovane, bionda e formosa. Non passava inosservata. Abbiamo avuto una storia breve ma intensa. Ad un certo punto sono stato costretto ad interromperla, perché l’ambiente di lavoro ne era turbato. Cercava il mio sguardo anche davanti agli altri, abbigliamento provocante, scuse per restare soli. Mi metteva in imbarazzo, ma non sapevo dirle no. Continuammo a vederci fuori, l’avevo mandata presso un altro studio. Era sempre bello ed entusiasmante, ma poi lei iniziò a volere di più.”

Lo guardavo mentre raccontava, un’aria allegra, il viso sorridente, gli occhi luminosi. Mi fece una carezza. Ero gelosa.

Capivo che per Enrico il sesso era stato sempre molto importante. Aveva verso di esso un atteggiamento sfrontato e giocoso, curioso ed impertinente. Una gioia della vita.

Eravamo seduti al bancone di un bar, sugli sgabelli, girati uno verso l’altro.

“Perché ti sei rabbuiata?”

“E’ tutto passato. Sono stato irrequieto, mi piace vivere emozioni forti e la trasgressione mi ha sempre affascinato. Chissà, forse una forma di contrappasso per via del mio lavoro! Ah! Ah!”

Rise di gusto e contemporaneamente mi accarezzò la coscia, infilando la mano sotto la gonna a tubino. Sussultai, poi anch’io mi misi a ridere.

Sarei stata all’altezza del suo passato. Anche meglio.

Non so perché ma non mi sfiorava neanche lontanamente l’idea che la nostra storia potesse essere un’avventura.

(10 continua)

Leggi dall’inizio: