Probabilmente il mio sogno americano è iniziato con il pacco che tutti gli anni arrivava dall’America, o per essere più precisi, nel nostro caso, dal Canadà. Allora si pronunciava con l’accento. Ero piccola ma già capivo che lì stavano avanti e pensavano in grande.

Il pacco seguiva un cerimoniale: non c’era una data precisa di arrivo, poteva arrivare più o meno a Natale oppure in estate. La zia canadese, “Maria ‘a longa”, conferma: quando capitavano le occasioni! Perché lei si occupava degli acquisti in stoffa, mentre zio Achille pensava alle cibarie.

Il postino avvisava papà, a voce, che c’era un pacco da ritirare.  Lui, il giorno successivo, si recava alla posta con la sua Fiat 850, colore celestino verde acqua. Io e mia sorella lo aspettavamo sulla soglia della cucina “buona”, che dava direttamente all’esterno, quasi sull’aia.

Veniva appoggiato sul tavolo e si procedeva all’apertura. Coltello a seghetto per tagliare spago e scotch. Era sigillato molto bene per evitare sguardi indiscreti o prelievi forzosi. Era vero che queste cose in America non succedevano ma … meglio tutelarsi. Tutto il mondo è paese.

Papà estraeva la roba dal pacco e la passava a mamma, che la rigirava tra le mani per una veloce valutazione a “uocchio”: calze di nylon marrone scuro oppure grigio fumo, annodate a dozzine. All’unisono io e mia sorella: “che schifo”. Più grandicella, volente o nolente, mia madre mi ha costretta a metterle. E’ superfluo ma queste scorte bastavano per anni e anni, sopravvivendo ai periodi in cui il pacco non arrivava. Qualcosa ha fatto parte pure del mio corredo da sposa.

Proseguendo: reggiseni per mia madre, tipo quelli della Triumph, le donne capiranno, robusti e duraturi. Lei non si accontentò mai di quelli italiani, piuttosto cuciva e ricuciva quelli usati. Quando si allargavano li metteva da parte, ne raccoglieva due o tre e poi ne ricavava uno solo. Era troppo affezionata. A volte arrivava pure la panciera. Non che mia madre fosse grassa, ma allora si usava. La parola d’ordine: contenersi!

Alternativamente: lenzuola, copritavolo, “mesali” e camicie da notte, tutto a fiori sgargianti e tutto rigorosamente sintetico!, calzini da uomo e mutande da donna a vita alta. Qualche volta le babbucce, ma mia madre le snobbava e non le faceva mettere a nessuno. Semmai, per chi non volesse infilarsi scalzo nelle lenzuola fredde, c’erano le scarpette di lana, fatte ai ferri da lei.

In ultimo finalmente, il “mattone” di cioccolata. Se eravamo fortunati, ce n’erano due. Avvolti dalla carta velina bianca. Pure loro sigillati con lo scotch. Erano il vero motivo per cui io stavo lì.

Però, ahimè, subito dopo, mia madre iniziava le “spartenze”. Prendeva il coltello di ferro con la lama liscia ed il martello, appoggiava il mattone sul davanzale di marmo della finestra ed iniziava le divisioni. Un dolore, ma anche lì si conteneva perché il mattone doveva durare molto a lungo. Mentre tagliava, ci elargiva le scaglie provocate dai tagli.

Volevo l’Americaaaaa, come dice la canzone di Bennato, volevo realizzare il mio sogno americano!

La prima volta che sono andata avevo ventitré anni.

Venivo da un piccolo paese, non ero abituata a strade così grandi, ai grattacieli, alle città che vivevano di notte, dove trovavi il negozio di alimentari con l’insegna open 24 luccicante come un albero di Natale! Mi piaceva l’idea che qualcuno tornando a casa ad un’ora tarda si potesse fermare a fare spesa.

Da noi c’era la piccola salumeria di “Ngiulina Arminda”, dove se ti andava bene il pane lo compravi dopo le dieci. Era quella l’ora in cui il figlio, Gennaro, tornava con il Fiorino dopo aver fatto lui per primo la spesa nei dintorni! Chissà se Gennaro nell’aldilà ha saputo che la sua uscita mattutina oggi è diventata un commercio di “nicchia”!

Mi piacevano quelle stazioni di servizio che spuntavano in mezzo al nulla, fornite di tutto, dove se avevi necessità potevi fermarti anche a dormire. La vita era più semplice, lì in America.

Durante un viaggio di notte sulla linea Greyhound mi innamorai delle case con il portico, tutte illuminate, con le sedie a dondolo sulla veranda, il prato ben tagliato, che davano direttamente sulla strada. Immaginavo di avere dei bambini e vivere lì.

Sono ritornata in America tante volte ancora, esplorando sempre luoghi diversi, ma, non mancando mai di ricordarmi delle mie origini, passando a salutare zii e cugini, testimoni di realtà diverse che convivono.

Oggi l’America continua ad affascinarmi e resta il luogo ideale per un viaggio o semplicemente un sogno americano.

L’Italia, invece, è la mia identità, la mia casa a misura, i miei affetti.

Ps. Foto scattata nel 2013 al Golden Gate di San Francisco.