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Il “gelu di muluni” e la stagione delle angurie.
Un ricetta siciliana che è l’occasione per far rivivere un ricordo. Ingredienti e procedimento per il gelo di anguria; accanto io, papà e la piazza del paese in agosto.
Per il gelo di anguria
- 1 kg di polpa di anguria
- 200 g di zucchero
- 50 g di amido di mais
- 4 g di gelatina in fogli
- 2 cucchiai di acqua di fiori di gelsomino
- a piacere pistacchi, gocce di cioccolato, vaniglia, cannella, chiodi di garofano.
Se ne abbiamo la possibilità, il giorno prima di preparare il dolce mettiamo in infusione in mezzo bicchiere di acqua una manciata di fiori di gelsomino. Copriamo il bicchiere con pellicola.
Per preparare il dolce, mettiamo in ammollo in acqua fredda i fogli di gelatina.
Passiamo al mixer l’anguria privata dei semi e passiamola attraverso un colino. In una pentola mescoliamo amido e zucchero, poi aggiungiamo il succo di anguria e 2 cucchiai dell’acqua dei fiori.
Se vogliamo aggiungere cannella e un po’ di chiodi di garofano potremo farlo utilizzando le polveri (poche).
Portiamo il tutto ad ebollizione facendo cuocere per un quarto d’ora circa, sempre mescolando. Deve ridursi di molto e diventare abbastanza densa. A fine cottura aggiungiamo i fogli di gelatina strizzati. Mescoliamo bene. Versiamo nelle coppette o in uno stampo, in ogni caso inumiditi con acqua fredda.
Come potete vedere dalla foto, io ho usato un cerchio apribile in uno stampo a cerniera (poiché non avevo la dimensione giusta dello stampo a cerniera, credo occorra un 20 cm ca.) per avere una specie di torta. Mettiamo in frigo per almeno dodici ore. Decoriamo con pistacchi, cioccolato, fiori di gelsomino. Non ho messo le gocce di cioccolato all’interno per simulare i semi, perché ho avuto paura che la salsa calda li sciogliesse.
Rispetto alla ricetta che ho trovato in un libro di cucina siciliana, ho diminuito la dose di amido (indicata in 100 g) aggiungendo in sostituzione la gelatina. In questo modo, secondo me, si sente di più il sapore dell’anguria.
In Sicilia è usanza mangiare questo famoso dolce in occasione della festa di Santa Rosalia e ancora il 15 agosto, quando le angurie sono al massimo della dolcezza. Le amiche siciliane potranno, certamente, raccontarci di più.
Io, papà e la piazza del paese in agosto.
L’anguria ha per me il sapore dell’infanzia.
Non l’abbiamo mai chiamata anguria, ma melone.
Durante il mese di agosto, la domenica mattina, papà mi portava con lui a comprare mezza melonessa da “Stangarella”. Quasi nessuno conosceva il suo vero nome. Era un tipo smilzo ed ossuto, che arrotava le parole perché davanti gli mancava qualche dente!
La sua bancarella fissa si trovava lungo la Strada Statale 7 Bis conosciuta come Via Nazionale delle Puglie. Le sere d’estate era un luogo di ritrovo perché i ragazzi si divertivano a fare notte mangiando anguria a crepapelle e giocando al lancio delle scorze.
Stangarella, la domenica mattina, arrivava nella piazza del mio paese con l’Ape piena del prezioso carico. Il mezzo sembrava arrancare, tanto era pesante. Lui allestiva subito una bancarella provvisoria per ripararsi dal sole, poi prendeva alcune angurie e le tagliava a metà. Altre in grosse fette. Li sistemava allineate in bella mostra sulla grossa tavola di legno.
Quando la piazza iniziava a popolarsi, Stangarella a voce alta richiamava l’attenzione, lodando la sua merce con battute ed aneddoti coloriti. Spesso, preso dall’entusiasmo, Stangarella si rivolgeva al “melonaro” rivale, che aveva la bancarella poco distante, “Peppo ‘e Fulippo”, un omaccione alto e grosso. Iniziava un acceso scambio verbale tra il serio e lo scherzoso.
Io e papà arrivavamo a metà mattina, quando lui aveva finito di preparare il sugo di carne. Era assai mattiniero e la domenica per pranzo era sempre pasta al sugo. Non l’ho mai sentito pronunciare la parola ragù.
La scelta dell’anguria.
Ci fermavamo davanti alla bancarella e papà dava uno sguardo ai meloni già tagliati. Difficilmente sceglieva lì quello da comprare, perché poteva sempre essere che tra quelli interi ce ne fosse uno migliore!
Perciò si avvicinava all’Ape, e cercava di adocchiare nel mucchio una bella melonessa, grossa e accattivante. Ne batteva l’esterno con il palmo della mano per sentire se “suonava”.
Doveva essere un suono “cavo”, come un rimbombo.
Una volta compiuta la difficile scelta, Stangarella recuperava la melonessa, che era più grande di lui e la metteva sul bancone. Mentre noi guardavamo attenti e ansiosi, lui col coltellaccio procedeva al taglio. Diceva che il melone maturo al punto giusto, una volta arrivati quasi a metà, si spacca da solo, facendo il caratteristico crack.
Speravo sempre di sentire quel rumore perché mi immaginavo per pranzo una fetta dolcissima.
“Se al centro esce un piccolo taglio, allora vuol dire che è zucchero!” spiegava Stangarella.
In caso non fosse così, papà optava per una già aperta. Non prima, però, di aver proceduto all’assaggio.
Raramente mi comprava una piccola fetta che mangiavo lì, stando attenta a non sporcarmi. Altrimenti, il mio assaggio era sempre un pochino più grande del suo.
La bancarella era circondata da avventori uomini, che si fermavano per fare due chiacchiere e gustare il melone. Li vedevo mangiare con le gambe larghe e leggermente flesse, con il busto chinato in avanti, attenti a non sporcarsi la camicia.
Addentavano le fette con ingordigia ed ad un certo punto la situazione degenerava. Iniziavano una gara a chi finiva prima, facendo scivolare denti e labbra sulla polpa come se stessero suonando un’ armonica a bocca. Il succo scorreva lungo il mento e cadeva per terra rendendo il marciapiedi appiccicoso!
Ridevano, contenti. Dicevano che con la fetta di melone ti lavi pure la faccia. Qualcuno per gioco lo faceva.
Era bella la domenica mattina in piazza con papà.
Soddisfatti per l’acquisto, ci dirigevamo verso l’auto. Lui, sbrigativo come sempre, camminava davanti a me a passo spedito. Io, dietro, mi affrettavo per tenergli il passo.
Da lontano sbirciavo il bar di “Pacchitiello”, dove si facevano i migliori gelati del mondo!
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